
Benvenuti, sono il Dott. Valentino Moretto, psicologo e psicoterapeuta, mi occupo del trattamento del disagio e della sofferenza psichica, attraverso la parola e la sua cura.
Quando l’amore diventa una richiesta impossibile (e come ritrovare il proprio desiderio)
In molte storie d’amore arriva un momento in cui non si respira più davvero dentro il rapporto. Non perché l’altro sia necessariamente ostile o aggressivo, ma perché, nel tentativo di mantenere la relazione, una parte di sé comincia a scomparire. È in situazioni di questo tipo che si usa spesso l’espressione “dipendenza affettiva”: un’etichetta molto comune, che le persone cercano quando sentono che l’amore consuma più di quanto sostenga. Ma dietro l’etichetta c’è sempre una storia singolare, unica.
La psicoanalisi invita a guardare proprio lì: non alla definizione, ma al punto intimo in cui qualcosa, nel legame, ha smesso di funzionare. Per Lacan, l’amore non è un sentimento lineare; è un modo di rivolgersi all’Altro per colmare una mancanza che abita ogni soggetto. Nessuno ama da un punto neutro: si ama con le proprie ferite, con ciò che è mancato, con il vuoto che si tenta di suturare attraverso l’altro. Per questo, a volte, l’amore può trasformarsi contemporaneamente in un rifugio e in una trappola.
Può accadere che la presenza dell’altro diventi indispensabile non solo per ciò che è, ma per ciò che rappresenta nella vita psichica di chi lo ama: sicurezza, riconoscimento, continuità. Basta un gesto mancato, un silenzio o un’improvvisa distanza perché l’intero equilibrio interiore si incrini. Non si tratta di debolezza, né di fragilità morale: è il tentativo di proteggersi dal vuoto, affidando all’altro la funzione di stabilizzare ciò che dentro appare troppo incerto.
In questi casi, la relazione si appesantisce. L’altro smette di essere un partner e diventa un oggetto da cui dipendere, un oggetto che però non può mai funzionare appieno perché nessuno può colmare la mancanza originaria del soggetto. Il risultato è una tensione continua: paura di perdere e paura di restare, desiderio e angoscia intrecciati senza tregua.
A volte la consapevolezza arriva lentamente, attraverso piccoli segnali: la vita quotidiana sempre più centrata sull’altro, l’ansia costante di deludere, la difficoltà a prendere decisioni autonome. Altre volte parla il corpo: insonnia, perdita di appetito, agitazione. Il corpo avverte quando il legame diventa troppo stretto per respirare.
Eppure, nonostante la sofferenza, lasciare è difficilissimo, se non impossibile in certe circostanze. Anche quando si sa che la relazione fa male, appare come l’unico luogo in cui ci si sente vivi. In termini lacaniani, l’altro diventa “oggetto a”: ciò che cattura, ciò che promette un godimento impossibile da abbandonare.
È proprio su questo punto che il lavoro clinico psicoanalitico trova spazio. Non si tratta di spingere a interrompere o a salvare il rapporto, ma di interrogare il senso profondo di quel legame. La domanda non è “Perché non riesci ad allontanarti?”. La domanda è: “Che cosa rappresenta per te questo legame? Quale posto occupi tu, nella tua stessa vita?”.
Quando il soggetto comincia a parlare da questo punto, qualcosa può muoversi. Il rapporto smette di essere una condanna e diventa un discorso da decifrare. Le scene che si ripetono parlano della propria storia: dei modi in cui si è cercata attenzione, di come si è tentato di evitare l’abbandono, del posto che si è provato a conquistare nel desiderio dell’Altro.
È allora che può affacciarsi una possibilità diversa: non chiedere più all’altro ciò che nessuno può dare. Non eliminare la mancanza, non viverla come un difetto. Il desiderio non coincide con la dipendenza, e la mancanza non è un segno di fragilità: è la condizione stessa per poter incontrare l’altro senza annullarsi.
Non si tratta di diventare distaccati o auto-sufficienti. Si tratta di scoprire che l’amore non nasce per colmare un vuoto, ma per creare un incontro. Quando questo accade, il legame si alleggerisce, si apre, smette di imprigionare.
Così, ciò che all’inizio sembrava “dipendenza affettiva” può diventare un’opportunità preziosa: non per giudicarsi, ma per leggere diversamente il proprio modo di amare e di soffrire. La psicoanalisi non offre soluzioni, ma uno spazio dove ciò che ripetiamo può finalmente trovare parola, e dove la catena del sintomo può allentarsi.
Se un legame porta più angoscia che incontro, parlarne con qualcuno può aprire una possibilità nuova. Non per liberarsi dell’altro, ma per ritrovare sé stessi.







