
Benvenuti, sono il Dott. Valentino Moretto, psicologo e psicoterapeuta, mi occupo del trattamento del disagio e della sofferenza psichica, attraverso la parola e la sua cura.
Attimi di dimenticanza: cosa può dirci la psicoanalisi (e Lacan) sulla felicità
«Forse vi sono momentini minuscolini di felicità, e sono quelli durante i quali si dimenticano le cose brutte. La felicità, signorina mia, è fatta di attimi di dimenticanza.»
Cit. Totò
Questa frase tocca qualcosa di profondo. Non ci dice che la felicità è uno stato permanente, né un obiettivo da raggiungere una volta per tutte. Piuttosto, la tratteggia come qualcosa di minuscolo e fuggevole, che si insinua nonostante tutto, e forse proprio quando riusciamo a dimenticare le “cose brutte”.
Ma cosa può dire la psicoanalisi su questo?
La felicità e la sua precarietà
Freud non parlava molto di felicità, se non per sottolinearne la natura fragile. In Il disagio della civiltà (1930), scrive che “ci si aspetta che il programma del principio del piacere venga adempiuto: l’uomo vuole essere felice e rimanere tale.” Tuttavia, le condizioni della realtà e del nostro inconscio rendono questo ideale irrimediabilmente instabile.
Lacan va oltre. Per lui, il soggetto non è padrone della propria felicità, perché non è padrone nemmeno del proprio desiderio. Come ha detto nel Seminario XI, “là dove parlo non sono, e là dove sono non parlo”. Il soggetto è strutturalmente diviso, abitato da una mancanza che lo spinge a desiderare, a cercare un oggetto (l’oggetto a) che però non potrà mai colmare davvero quel vuoto originario.
In questo contesto, la felicità come stato pieno, stabile, sarebbe un’illusione. Ma allora, cosa resta?
L’attimo, lo scarto, la fessura
La frase da cui siamo partiti sembra suggerire che la felicità risieda proprio nell’intermittenza, in quei “attimi di dimenticanza” che bucano la continuità del dolore, dell’ansia, della ripetizione.
Per Lacan, questi momenti potrebbero essere letti come dei punti di scarto dal godimento ripetitivo del sintomo, delle sospensioni temporanee del circuito del desiderio e del senso. Momenti in cui, forse per caso, ci si disconnette dalla rete simbolica in cui siamo immersi — il linguaggio, il dover essere, le aspettative, le ferite — e si sperimenta qualcosa di semplice, non mediato.
Non è un compimento, né un possesso. È piuttosto qualcosa che accade nel vuoto, nell’assenza, nella dimenticanza appunto. Non c’è oggetto, non c’è memoria, non c’è racconto. Solo un istante.
Felicità e rimozione: un’ambiguità
Ma questa “dimenticanza” è un sollievo o una rimozione? Freud ci ricorda che dimenticare può essere anche una difesa: la rimozione, infatti, è uno dei meccanismi centrali dell’inconscio. Tuttavia, nella frase che apre questo testo, sembra esserci qualcosa di diverso. Non una rimozione nel senso clinico, che lascia tracce e sintomi, ma una piccola sospensione, quasi un dono.
Potremmo dire, allora, che quei momenti non sono né rimozione né elaborazione. Sono l’intervallo.
Conclusione
Se la felicità è fatta di “attimi di dimenticanza”, allora forse non va cercata nei grandi eventi o nelle certezze. Forse si trova nei vuoti, nelle fessure, nelle pause. In quei momenti in cui, anche solo per un istante, smettiamo di rincorrere, di difenderci, di capire. E semplicemente siamo.
